STORIE DI VALSUSA / LA VITA DI MONTAGNA NEI RICORDI DI NONNA PAOLINA: QUANDO A RUBIANA C’ERANO LE “CARBUNERE”…

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di MARIO RAIMONDO

Poi casualmente capita che ti ritrovi una sera d’autunno davanti ad un fuoco scoppiettante. Quella fiamma che arde con passione è come Paolina Raimondo, che dalla longevità dei suoi anni racconta della vita di ieri e dell’altro ieri, quella che per la troppa fretta abbiamo dimenticato, ma dalla quale proveniamo.

Nostalgia? Sì e no, ovviamente, ma la parte che propende per il “sì” è davvero autentica, perché  solo il passato “è” e “dà” certezza, mentre il presente incerto si fionda in un avvenire ignoto da esplorare.

La vita di ognuno di noi in fondo è come un sentiero più o meno lungo da percorrere in tanti – brevi o lunghi -passi che parte da un’alba radiosa per giungere alla soglia della notte misteriosa della quale ignoriamo l’oltre…Il sentiero di Paolina è li tutto da percorrere, da raccontare.

Un calendario da sfogliare con le sue date, i suoi aneddoti, le sue storie. Ne racconta una di un anno qualsiasi come potrebbe essere stato il 1947, quando la notte della Guerra era già stata inghiottita dall’aurora della nuova epoca.

Parla con passione e si capisce che davvero certi posti sono i luoghi del cuore. Ferro, Martinasso, Raimondo, nell’alto rubianese, la parrocchia di Favella, erano le borgate dove la famiglia dei Raimondo aveva iniziato la “colonizzazione” della Valmessa con i due capostipiti i fratelli Rocco e Celestino (fino al 1890 la “J” appariva nei documenti della famiglia) e della quale Paolina è riuscita, con lavoro certosino su documenti d’epoca, a ricostruirne in parte la genesi.

“Lassù al Ferro – racconta – luogo che sarebbe diventato celebre ai buongustai valsusini per l’osteria di Dario Raimondo, abbiamo vissuto la nostra infanzia e prima giovinezza…anche se con il metro di oggi fu davvero dura, a noi appariva leggiadra come il battito d’ali delle farfalle. Mio padre Renato e mia madre Maria Blandino ci portavano sempre su (portavano significava andare a piedi od al massimo sul “cartun”). Abitavamo ad Almese nella Curt d’Roc – via Roma – dove gli antenati avevano comprato i terreni ed edificato le case. La proprietà era davvero vasta ed andava dall’odierna via Rubiana alla via Bajarde e la vita era imperniata sull’agricoltura, sul lavorare duramente la terra al piano ed al monte, perché l’industrializzazione che sarebbe stata generata dalla Fiat apparteneva ancora al divenire. La nostra anima apparteneva però alla montagna rubianese, perché ai nostri occhi davvero era la montagna incantata. Non potete immaginare com’era bella allora: pulita, ordinata, coltivata in ogni dove ed in ogni stagione. C’erano meleti, peréti e susini che in primavera al tempo della fioritura profumavano l’aria di dolcezza. Ma questa dolcezza richiedeva un lavoro immenso per tutte le stagioni e la gerla era lo strumento principale di quel tempo. Praticamente la si indossava sempre ed anche i ragazzini ne conoscevano l’uso”.

“Ricordo come in un flash Gioachino Raimondo e rammento che praticamente era sempre con quell’attrezzo in spalle. I nostri padri, gli zii, i nonni tutti in ogni stagione avevano il loro bel da fare e non stavano mai fermi. Oltre alla quotidianità dell’accudire il bestiame ogni giorno, iniziavano con la fienagione, passavano poi alla raccolta della frutta e d’autunno delle castagne, terminavano l’annata con la raccolta delle foglie per la lettiera degli animali e con il taglio della legna per i focolari d’inverno. Ma in quel mondo apparentemente chiuso c’era un momento davvero atteso. Era la “viija”, il ritrovarsi tutti insieme la sera, nelle stalle, per sentire raccontare quelle storie che sapevano tramandare i saperi ed i ricordi che creavano una continuità con le generazioni che ci avevano preceduto. Alla piccola, ma viva, luce del lume, mentre le mamme e le nonne ancora lavoravano di maglia, il rito della “viija” ci coinvolgeva, ci rapiva e ci istruiva come se fossero parole lette dai libri. Ed in fondo davvero era così perché era il libro della vita di quell’oggi e di ieri. Tutti noi ragazzini ci sedevamo vicini – io stavo sempre accanto a mio fratello Rinaldo – assorti, rapiti da quelle tremule luci del “ciair”, che disegnava ombre nella stalla ed ascoltavamo le storie di ieri, di quando i trisnonni Celestino e Rocco avevano impiantato le “carbunere” sulla montagna rubianese, per produrre il carbone di legna che era davvero pregiato e ricercato, perché nato dalle ottime essenze vegetali di quei boschi. Immaginavamo quei cumuli di legna fumante, li immaginavamo prima immensi, come vulcani divorati da un fuoco nascosto, e poi via via più piccoli, sino al ridursi ad un monticello da cui come per incanto, come se si aprisse la porta di una miniera, veniva estratto quel carbone nero che portavano a Torino. Ci sembrava quasi incredibile che qualcosa prodotto lassù potesse raggiungere la grande Torino. Ma davvero era così. Tutto caricato e portato giù fino a Rubiana sulle gerle, perché la strada carrozzabile tra Rubiana e Mompellato ancora non esisteva. Ne fu promotore Paolo Raimondo con l’onorevole Boselli ed il parroco di Mompellato, don Isabello”.

“Iniziata nel 1914, sospesa nel periodo della Grande Guerra, fu inaugurata nel 1924 e fu l’opera che sanò la frattura storica, geografica ed anche umana esistente tra la “Rubiana di sopra” e la “Rubiana di sotto”. Ascoltavamo le voci delle donne: che paura sentire del prete che faceva “la fisica” – sorta di magia tra la bianca e la nera figlia della superstizione popolare – a chi magari gli era antipatico o poco devoto ai sacri precetti. E poi le storie delle masche..che paura e che curiosità per quelle femmine diaboliche dalle virtù dubbie che anche al prezzo della vita, nei secoli passati, avevano in un certo modo sfidato l’apparentemente inamovibile status quo esistente. Quando poi  andavamo a letto, ed era già notte…che paura! Ci tenevamo aggrappati ai “faudal” delle nostre madri con gli occhi spalancati nella notte col terrore – ma forse anche la speranza – di vedere almeno per una volta qualcuna di quelle masche. Ed invece niente ossia solo l’oscurità assoluta della notte, con l’incanto delle costellazioni nel cielo. Allora con passo felpato, quasi furtivo, raggiungevamo i nostri letti dove Morfeo ci attendeva per traghettarci al nuovo giorno. Ma la “viija” soprattutto era “l’agorà della borgata”, la comunità che si raccontava a se stessa, era una sorta di calendario virtuale, dove gli eventi di quell’oggi e di ieri coesistevano nella memoria collettiva che era la radice, la linfa di quella gente di montagna, abituata ad una vita grama, che nella “viijà”  trovava una sorgente di conforto e di speranza. Col senno di poi, oggi, sono davvero contenta di essermi dissetata a quella sorgente: quell’acqua m’insegnò davvero tante cose per la vita”.

Una lunga vita, con giorni chiari e scuri, con giorni del riso e del pianto, che ha visto Paolina Raimondo sposa di Lidio Jannon a Salbertrand, mamma e nonna di figli e nipoti stupendi. Una vita fatta di innumerevoli giorni fino all’incontro casuale di stasera. Abbiamo parlato, ho ascoltato le tante storie di ieri della nostra famiglie fino all’ora tarda, sino a quando il fuoco si è spento. Ma ho la certezza che sotto la cenere, domani, le braci saranno di nuovo fiamma…

 

 

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