di MARIO RAIMONDO
Sono svariate le versioni che riguardano gli ultimi giorni di vita e la morte di Benito Mussolini nell’aprile del 1945. Forse la verità ‘vera’ sulla vicenda non si conoscerà mai , perché essa appartiene solamente a Dio, e tutti quelli che vennero più o meno coinvolti in quella vicenda ne raccontarono una loro, forse troppo vera, forse palesemente falsa, forse di comodo, forse ‘sospesa’, per cui parafrasando e ribaltando un famoso detto si potrebbe dire che la verità è soltanto una menzogna mascherata e che la menzogna mascherata null’altro è che una verità nascosta…
Urbano Lazzaro, nome di battaglia ‘compagno Bill’ (1924 – 2006) fu una di quelle persone che per una singolarità della storia fu coinvolto negli eventi dell’aprile del 1945. Fu infatti lui che il 27 aprile del 1945 a Dongo catturò Mussolini, Claretta Petacci, suo fratello Marcello, insieme ad altri gerarchi fascisti. Su quei fatti scrisse tre libri: “Dongo: ultima azione”; “Il compagno Bill”; e “Dongo : mezzo secolo di menzogne.”
Viveva abitualmente a Rio de Janeiro, ma soggiornava alcuni mesi all’anno in Piemonte nella sua casa ad un’ottantina di chilometri dalla Valle di Susa dove, mi disse “ogni tanto vado ad ammirare la splendida, affascinante Sacra e la Cattedrale di San Giusto, nella cui penombra trovo quiete”. E dove mi accolse per un’intervista.
Questa è la verità che mi raccontò.
Compagno Bill, al secolo Urbano Lazzaro, può ricordare come avvenne l’arresto di Mussolini?
“Tutto avvenne in Dongo alle ore tre pomeridiane del 27 aprile 1945. Avevamo fermato l’autocolonna di militari che stava abbandonando l’Italia. Correva voce che proprio su quell’autocolonna vi fosse Mussolini. Confesso che ero scettico, ma dovetti ricredermi quando Giuseppe Negri, uno dei dieci garibaldini da me incaricati di controllare i documenti, mi chiamò in disparte e mi disse: “Bill, gh’è el crapun”.
Su d’un camion più avanti v’era infatti, appoggiata alla cabina, la sagoma di un figuro col bavero del cappotto rialzato e l’elmetto calato sul viso.
Mi avvicinai ai bordi del camion appresso a quella sagoma, con cautela, mentre i tedeschi mormoravano: ‘Camerata ubriaco, camerata ubriaco…”. Con una mano gli batto su una spalla e lo chiamo: ‘Camerata!’ Nessun movimento. Gli batto un’altra volta la mano sulla spalla e lo richiamo: ‘Eccellenza!’. Non risponde, non si muove.
Allora, irritato, grido forte: ‘Cavalier Benito Mussolini!’. La sagoma ha un sussulto. Salgo sul camion e mi avvicino all’uomo rannicchiato e muto; gli tolgo l’elmetto e riconosco il profilo della testa. Gli tolgo gli occhiali da sole, gli abbasso il bavero che copre il viso.
E’ lui! E’ Benito Mussolini: lo aiuto ad alzarsi, mi faccio consegnare le armi. Ciò che mi colpisce di lui, quando, in piedi, ci troviamo uno di fronte all’altro è il suo sguardo vuoto, fuori dal tempo. Nel frattempo la notizia della cattura del Duce si è sparsa per il Paese ed una grande folla vociante s’è radunata intorno al camion.
Il Duce sembra frastornato, inebetito quando gli dico: ‘In nome del popolo italiano io l’arresto.’ Risponde trasognato: ‘Non faccio nulla’. La parabola politica dell’uomo che voleva dominare il mondo era giunta all’epilogo”.
Chi è stato, secondo lei, Mussolini?
“Il peggior prodotto, la più brutta figura di un capo politico italiano, colui che trascinò la Patria nella rovina di una guerra assurda, un demagogo che riempì di lacrime gli occhi della gente. Ancora oggi non riesco a capacitarmi di come sia stato possibile che il potere e lo Stato si siano incarnati in Benito Mussolini”.
Quando arrestò Mussolini lei ebbe la possibilità di controllare il contenuto della famosa borsa di pelle marrone chiaro che il Duce tentava di contrabbandare sull’autocolonna. Può dire cosa c’era in quella borsa?
“Certo. La borsa conteneva documenti che trattavano con il protocollo ‘Segreto’, della situazione di Trieste e del passaggio di Mussolini e del Governo in Svizzera, documenti che il Duce mi disse essere estremamente importanti per il futuro dell’Italia. V’erano inoltre carteggi di corrispondenze epistolari tra Mussolini ed Hitler, un dossier intitolato ‘Umberto di Savoia’ con i rapporti segreti sulla persona dell’erede al trono.
Altro materiale sicuramente interessante era il carteggio riguardante il processo di Verona, con molte lettere dei condannati a Mussolini che, curiosamente, portavano in calce, scritto dalla mano di Mussolini, la nota: ‘Non pervenuta al destinatario’. Completavano il contenuto della borsa 160 sterline d’oro e tre assegni della Banca Nazionale del Lavoro per un totale di un milione e settecentomila lire”.
Ha accennato alle lettere dei condannati a morte al processo di Verona. Anche su quella di Galeazzo Ciano, genero del Duce, v’era la dicitura ‘Non pervenuta?’
“Non lo so. Francamente non ricordo”.
Mussolini meritava la morte?
“Mussolini, per i crimini commessi contro il popolo italiano meritava la pena di morte, da comminarsi però dopo un pubblico processo popolare. Quello che determinò la morte del Duce fu invece un incidente provocato dal Colonnello Valerio, che volle far giustiziare Mussolini in tutta fretta in una specie di vendetta personale con connotati politici. Badi che ho detto incidente, perché di tale evento si trattò, in quanto il Duce fu ucciso da una scarica di mitra partita dall’arma di un partigiano che stava tentando di divincolarsi da Claretta Petacci, la quale aveva capito quel che stava per succedere. Quando partì la scarica fatale per il Duce, la Petacci riuscì a divincolarsi e venne a sua volta fucilata. Il Duce, ormai a terra rantolante, fu finito con una raffica di mitra sparata da Pietro Michele Moretti, su espresso ordine del Colonnello Valerio. La storia della ‘regolare’ fucilazione di Benito e Claretta, tramandata come avvenuta presso il cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra è solo una favola”.
Il Colonnello Valerio chi era: Walter Audisio? “Ma quale Walter Audisio! Walter Audisio stava al Colonnello Valerio quanto un fraticello sta a Mefistofile! Il vero Colonnello Valerio, il Robespierre responsabile delle esecuzioni di Dongo compresa quella dei vari Bombacci, Calistri, Coppola, che nulla avevano spartito con gli altri gerarchi del fascismo e che non meritavano di essere uccisi, era Luigi Longo, futuro segretario del Partito Comunista Italiano”.
Quando seppe dell’avvenuta esecuzione di Mussolini e degli altri gerarchi, quando vide i cadaveri riversi sulla piazza di Dongo, che cosa provò?
E’ difficile dirlo ora … spiegarlo. E’ una sensazione che potrei…come dire…comunicarle attraverso le parole di un libro di Hemingway quando dice che ‘la morte di ogni uomo mi diminuisce un po’ della mia umanità. Quando senti suonare la campana non mandare a chiedere per chi suona: essa suona anche per te’.
Non so se lei mi capisce:è una cosa molto difficile da spiegare”.
E’ mai andato a Predappio sulla tomba del Duce?
“E perché mai avrei dovuto andarci? Il nazifascismo ha fatto milioni di vittime che non hanno neanche avuto una tomba.”
Nel dopoguerra ha ancora visto qualcuno della famiglia Mussolini?
“No. L’unico contatto che ebbi con le persone in qualche modo implicate nei fatti di Dongo fu quando fui chiamato a Roma a testimoniare in un processo intentato dalla famiglia Petacci contro Zita Ritossa, l’amante di Marcello Petacci, pure lui fucilato a Dongo, per l’affidamento dei figli. Ribadii allora che Rita Ritossa non aveva avuto nessuna colpa nella cattura di Marcello Petacci e che la sua esecuzione fu voluta e cercata dal Colonnello Valerio, alias Luigi Longo”.
Lei parla molto di Dongo. E il tesoro di Dongo, se mai è esistito, che fine ha fatto?
“Il tesoro di Dongo è esistito eccome ed io, assieme a Pedro, Pietro e il capitano Neri, firmai i protocolli che ne certificavano l’esistenza e l’ammontare, un valore che andava ben oltre i due miliardi di lire di allora”.
Quindi che fine ha fatto il tesoro di Dongo?
“Vi fu un processo che durò dal 1949 al 1957 per stabilire quale fine fece il tesoro di Dongo, ma non si riuscì a ricavarne nulla, perché il procedimento finì insabbiato. La verità sul tesoro di Dongo la si evince leggendo il rapporto segreto inviato dall’allora questore di Como, Davide Grassi, al Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi: il tesoro di Dongo finì nelle mani del Partito Comunista Italiano. Ma questo è soltanto uno dei tanti segreti che ancora avvolgono i fatti di Dongo.”
Su Dongo esistono altri segreti?
“Si.”
Me ne racconta uno?
“No. Non posso. Presi degli impegni al silenzio con compagni che caddero nella lotta di Liberazione. Intendo mantenerli”.
Le sembra giusto non rendere alla storia tutti retroscena sulle vicende di Dongo?
“Definire ciò che è giusto od ingiusto nelle storie singole o collettive credo sia impresa ardua. Il giudizio sulla storia è solo di Dio”.
Ma lei chi è: il signor Lazzaro o il compagno Bill?
“Io sono Urbano Lazzaro, il compagno Bill.”
L’aver incrociato la Storia l’ha reso orgoglioso?
“No, guardi, nessun orgoglio. Eppoi non sono io che ho incontrato la Storia, ma è la Storia che ha incrociato me. Poteva incrociare qualsiasi altro partigiano ed io ho fatto soltanto quello che qualsiasi altro patriota e soldato avrebbe fatto. Non ho mai cercato la gloria.”
Signor Lazzaro, siamo qui nella quiete della sua casa, a parlar di fatti lontani nel tempo. Immagini che tra un istante squilli il telefono; dall’altro capo del telefono una voce femminile la saluta: “Buonasera sono l’onorevole Alessandra Mussolini” Lei, per rompere il ghiaccio, cosa direbbe?
“Non direi nulla perché non avrei nulla da dire all’onorevole Alessandra Mussolini. Il fascismo è sepolto col cavalier Benito”.
Concludendo: in un suo libro lei si pone una domanda un po’ ermetica: “Così volevi Bill? E’ questo il lago azzurro, dolcissimo?” Signor Lazzaro, posso chiederle se ha trovato quel ‘lago’?
No, francamente non ho mai trovato quel ‘lago’. Non so neppure se mai lo troverò.”
Un’ultima domanda, compagno Bill: ha una speranza?
“Si. Che quel che è accaduto non accada mai più”.