IL LUPO IN VALSUSA, UNA RIFLESSIONE DI LUCA GIUNTI

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di LUCA GIUNTI (Guardiaparco Parchi Alpi Cozie)

SALBERTRAND – Il lupo è un risolutore di problemi. O almeno ci prova. Nel moderno linguaggio manageriale, sarebbe un perfetto “Problem solver”. Come Mr. Wolf in Pulp Fiction di Quentin Tarantino, il lupo arriva e da professionista aggiusta i guasti causati dall’inesperienza o dalla imperizia di altri (di solito, umani). Come Harvey Keitel, talvolta usa metodi un po’ drastici e poco popolari.

Caprioli? Zero”. “Cervi? Neanche uno”. “Stambecchi? Quelli li abbiamo finiti già nel 1700”. “E i cinghiali?” “Ah, ogni tanto ne arriva qualcuno, probabilmente dalla Francia, ma non è sufficiente per aprire la caccia”. “Ci sarebbero rimasti i camosci, ma non sono abbastanza nemmeno quelli“.

La conversazione è immaginaria, ma molto vicina alla realtà. Alla fine della Seconda Guerra mondiale, i grossi ungulati non c’erano più, estinti dalla presenza umana che aveva sottratto loro gli habitat, coltivando ogni pezzetto di terra disponibile e tagliando il bosco per trarne legna da ardere o da lavorare. Nel dopoguerra Alpi e Appennini sono stati abbandonati dagli abitanti che cercavano lavoro e opportunità in città e in pianura. Territori coltivati e regimati da secoli hanno improvvisamente visto sparire gli esseri umani. A parte qualche anziano e qualche commerciante, prima del boom turistico i frequentatori assidui di colline e medie montagne erano rimasti i cacciatori. Senza più prede, però, come illustrato nella “intercettazione” iniziale.

Ecco allora che in tutta Italia enti pubblici e aziende private si sono dati da fare per ripopolare la fauna selvatica. Talvolta sono state introdotte specie mai presenti in precedenza, come il muflone in Val Chisone e nelle Valli di Lanzo.

La Provincia di Torino fece da pioniere. Agli inizi degli anni ’60 scelse l’abetina del Gran Bosco di Salbertrand (poi Parco Naturale dal 1980) per reintrodurre una dozzina di caprioli e di cervi acquistati in ex Jugoslavia, oggi Slovenia. Negli anni seguenti l’assenza dei predatori naturali, il regime di tutela assoluto, i nuovi habitat ritornati tranquilli per le migrazioni umane e l’abbondanza di cibo (i pascoli non più brucati da pecore e bovini o tagliati per il fieno), favorirono la diffusione dei nuovi arrivati. Nei 2500 ettari del Parco le popolazioni aumentarono in modo esponenziale arrivando a centinaia di capi alla fine degli anni ’70.

Elisa Ramassa, responsabile faunistico delle Aree Protette delle Alpi Cozie, afferma: “I caprioli e i cervi rilasciati all’interno del Gran Bosco si riproducevano e continuavano a rimanere nella stessa area. Ben presto sono cominciati i problemi. I cervi compromettevano il rinnovo dell’abete bianco brucando i germogli e gli apici delle piante giovani, scortecciando i tronchi di quelle mature per nutrirsi della corteccia, in inverno, o per liberarsi dal velluto del nuovo palco, in estate“.

I censimenti dell’epoca, svolti prima dal solo ente Parco poi anche dai comprensori alpini di caccia via via formatisi intorno all’area protetta, certificavano ogni stagione incrementi del 15-20%. Ricorda Elisa che la soluzione è stata controversa: “Si decise di catturare e traslocare altrove alcuni capi e di iniziare ad abbattere quelli in eccesso“. Un rimedio estremo, non esente da critiche, discussioni e ricorsi al T.A.R. Interviene il Direttore delle Aree Protette delle Alpi Cozie, Michele Ottino: “Il divieto di caccia dentro i Parchi è una caratteristica universale, la più uniforme visto che altre norme possono variare per ogni area protetta. La scelta di derogare è sempre sofferta, non è mai presa a cuor leggero. Deve essere approvata a livello nazionale e segue protocolli rigorosi“. Infatti non era una caccia indiscriminata. Riprende Elisa: “Si faceva selezione, i cacciatori dovevano essere formati ed erano sempre accompagnati dai Guardiaparco che decidevano quale era il capo da abbattere. In alcuni periodi dell’anno, poi, erano solo questi ultimi a sparare. Potete capire con quale stato d’animo.”.

Il Direttore integra la complessità del problema con un aspetto non trascurabile, vista la cronica carenza di fondi degli enti pubblici: “I cacciatori, oltre alla cifra in base al  peso del capo abbattuto e al trofeo nel caso dei maschi, versavano una quota per il solo fatto di aver ottenuto l’autorizzazione di entrare armati in un territorio altrimenti vietato. Non era certamente la ragione essenziale per cui si interveniva, ma costituiva un complemento utile per sopravvivere“.

In ogni caso, il sistema non sembrava portare i risultati attesi. I danni si ripetevano di anno in anno e i censimenti primaverili del 1995 toccarono l’apice di 240 cervi nel solo Gran Bosco (oggi se ne contano circa 100, ndR). Gli abbattimenti erano comunque serviti a obbligare gli animali ad uscire dall’area protetta, irraggiandosi anche all’esterno. Elisa consulta l’archivio: “Gli abbattimenti all’interno del Parco sono durati dal 1983 al 2005 uccidendo 711 capi e ferendone 31. Nel solo 1995 vennero prelevati 80 cervi, soprattutto femmine“. Poi conclude: “Quando sono terminati, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo: era una situazione non più sostenibile, dopo il ritorno spontaneo del lupo e il costante prelievo venatorio all’esterno del Parco. L’episodio decisivo è stato vissuto proprio dai colleghi Guardiaparco, che durante una battuta verso un gruppo di femmine hanno visto allontanarsi alcuni lupi, disturbati da loro, che avevano lo stesso obiettivo“.

Non c’era più bisogno di uno dei due predatori, quello bipede. L’abbondanza di prede selvatiche aveva infatti favorito il ritorno del lupo. La prima riproduzione accertata in Provincia di Torino è stata confermata proprio nel Gran Bosco di Salbertrand nel luglio del 1997, tramite la tecnica del wolf-howling (lanciare ululati artificiali a metà estate in zone disabitate dove si suppone la presenza di un branco di lupi, per indurre un’eventuale risposta la cui registrazione permette di distinguere le voci degli adulti da quelle dei nuovi nati, ndR). Nell’inverno seguente vennero filmati alcuni adulti sullo spartiacque tra Val Susa e Val Chisone. Dall’inizio del nuovo millennio, la Val Susa ospita tre branchi stabili, di cui due in alta/media valle. La loro presenza ha portato risultati quasi immediati. In pochi anni la popolazione dei cervi è stata assestata, ma senza compromettere la loro consistenza: infatti sono regolarmente oggetto dell’attività venatoria di selezione (fuori dai Parchi) che tutto sommato ha dovuto ridurre di poco il numero degli abbattimenti. Il maggior effetto è stato, però, sul comportamento delle prede.

Infatti i cervi si erano abituati a stazionare sempre nelle stesse aree più comode e appetibili, a mostrarsi all’aperto in ogni ora del giorno. Il lupo ha spazzato via questi difetti: oggi i cervi formano nuclei piccoli, sono diffidenti, si nascondono velocemente e, cosa più importante di tutte, si spostano continuamente. Mantengono l’abitudine a formare grossi gruppi divisi per sesso solo  appena dopo il periodo delle nascite, quando le femmine sentono più vulnerabili i cuccioli. In questo modo il potenziale danno alle giovani piantine di abete bianco e alle altre conifere è distribuito nello spazio e nel tempo. Oggi la presenza degli ungulati risulta compatibile con la rinnovazione, come dimostrato dai campionamenti effettuati per le recenti tesi di laurea in scienze forestali seguite dal Parco. Dunque il lupo ha svolto un servizio da professionista competente: rapido, efficiente, economico.

Certo, come con Mr. Wolf, non tutto fila liscio. Le prede costantemente in allarme per il predatore, sono diventate più difficili anche per i cacciatori umani, che se ne lamentano. Talvolta il lupo preda animali domestici, soprattutto pecore, se lasciati incustoditi. Potrebbe mangiare un po’ meno caprioli che stanno diminuendo, dicono alcuni, e concentrarsi sui cinghiali che invece sono innumerevoli. In realtà il capriolo è in espansione in tutta la penisola, come certifica l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). Se localmente qualche popolazione diminuisce, non è solo colpa del lupo: sono animali che prediligono radure aperte in mezzo a boschi tranquilli, e queste si stanno riducendo per l’abbandono delle colture tradizionali e la spinta alla crescita degli alberi dovuta anche alle maggiori concentrazioni di CO2 degli ultimi decenni. Inoltre patiscono la competizione con il pascolo dei domestici allevati dall’uomo. Quanto al cinghiale, il lupo talvolta caccia i giovani ma il tasso di riproduzione del suide è superiore alla capacità di regolazione del predatore, mentre contro un adulto da 70 chili non ci si mette nemmeno.

Il lupo “problem solver” non agisce solo in Italia. È facile trovare su YouTube “How wolves change the river”, un breve documentario illuminante sulla catena di azioni equilibratrici che il nostro predatore è in grado di innescare. Perché il lupo è come un’applicazione dei nostri smartphone. La carichiamo per svolgere un servizio che ci è utile, ma non conosciamo mai fino in fondo il suo funzionamento. Spesso produce altri effetti senza che ce ne avvediamo: modifica impostazioni, cambia modalità di accesso, aggiorna  software. Il ritorno del lupo fa lo stesso. Produce effetti non solo sulle sue prede dirette, come abbiamo visto, ma anche sugli habitat che queste utilizzano; seleziona gli esemplari deboli o anziani, migliorando la tonicità degli ungulati a vantaggio della loro stessa salute; contiene espansioni eccessive di altri predatori come volpi o sciacalli; costringe a migliorare i comportamenti di tutti gli utilizzatori del territorio, siano essi pastori, cacciatori, escursionisti, ciclisti, guide alpine, operatori forestali, amministratori, guardie. Nulla è più come prima, quando torna il lupo. Così come una nuova, originale, talvolta invadente, ma necessaria applicazione.

Il lupo è un risolutore di problemi. O almeno ci prova. Nel moderno linguaggio manageriale, sarebbe un perfetto “Problem solver”. Come Mr. Wolf in Pulp Fiction di Quentin Tarantino, il lupo arriva e da professionista aggiusta i guasti causati dall’inesperienza o dalla imperizia di altri (di solito, umani). Come Harvey Keitel, talvolta usa metodi un po’ drastici e poco popolari.

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2 COMMENTI

  1. Complimenti signor Giunti, io non la conosco di persona, ma confesso mi piacerebbe, ma lei con la sua riflessione ha dato una lezione a tutti coloro (cacciatori, animalisti, allevatori ecc.) che solo per il gusto di scrivere espongono la loro rispettatissima opinione senza essere a conoscenza dei reali problemi e gestione degli animali selvatici e della loro convivenza nei nostri monti.

  2. Ciao Luca.
    Le tue pillole di saggezza sull’ambiente naturale e, in particolare, sui lupi, presentate sempre con un assoluto rigore scientifico, lasciano sempre un alone di positività.
    Grazie a te e ai tuoi colleghi dei Parchi Alpi Cozie e, in generale, a tutti coloro che, come voi, cercano di porre rimedio agli errori commessi in passato.

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