STORIE DI VALSUSA: IL PARTIGIANO ELIO PERENO E IL “RESPIRO DELLA LIBERTÀ”

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di MARIO RAIMONDO

AVIGLIANA – E siamo quasi all’ottantesimo anniversario della Liberazione, da quel 25 aprile 1945 che per l’Italia significò la fine della Seconda Guerra Mondiale. Me ne parlò, in occasione del sessantacinquesimo anniversario l’amico Elio Pereno, aviglianese, che già allora era uno degli ultimi superstiti di quelle lontane giornate del 1945. Elio Pereno mi accolse – in verità più di una volta – nella sua casa per raccontarmi delle sue avventure da cui trassi spunti per un articolo giornalistico. La sua era una figura minuta, animata da una forte determinazione: i capelli bianchi troneggiavano sulla fronte stempiata e due occhi brillanti che incorniciavano il viso s’illuminavano come pietre preziose quando parlava del passato, di quel passato che avrebbe portato alla Liberazione.

Il suo parlare vibrava sulla frequenza delle emozioni, la sua memoria aneddotica e ferrea aveva il potere di essere come un raggio di luce che scandagliava all’indietro nel tempo ricreando la parvenza della contemporaneità a eventi che appartenevano a giorni di ieri, giorni di Storia da non dimenticare. “Noi – esordiva Elio Pereno – fummo quella generazione che patì sulla propria pelle, nella propria carne, il furore della guerra, di una guerra senza più regole che un nemico feroce, moralmente allo sbando e destinato ad essere sconfitto dalla Storia, portò nelle nostre valli, nelle nostre case e fin dentro i nostri cuori. Immaginate la valle di allora, la sua gente, la sua gioventù a cui appartenevo… Il primo dilemma era quel che fare, mentre i bandi repubblichini e germanici c’invitavano ad arruolarci nell’esercito di Salò oppure di andare a lavorare in Germania per fare quelli che sarebbero diventati gli “Schiavi di Hitler”?… L’alternativa allettante proposta da questi bandi per chi non aderiva ad essi era la fucilazione… Bisogna capire quanto fossero concitati quei momenti, quando tuonava il cannone o ululava la sirena e quanto quel lugubre suono che ti frastornava i timpani e ti perforava l’anima, fosse antitesi alla dolce brezza della pace e della libertà… Io provenivo da una famiglia che non aveva mai guardato con simpatia alle goliardate del Duce e men che mai all’entrata dell’Italia in guerra: papà Francesco – che io non conobbi perché morì quando avevo tre anni – e mia madre Maria Sada, erano di sentimenti antifascisti, ed io fui quindi agevolato dalla mia scelta anche se essa si concretizzò nella decisione di un attimo breve come l’eco di una sirena”.

“Mamma – dissi – salgo in montagna con i partigiani. Abitava vicino a noi Giovanni Fassino, che sapevamo essere un fiancheggiatore dei partigiani, ed allora con gli amici Edoardo Bolla, Bruno Ferraudo e Ilvo Ghiano ci presentammo da lui… Quando ci vide capì e disse: “Saliamo in montagna da Eugenio Fassino. Il comandante sta organizzando le brigate partigiane. Così aderimmo alla Resistenza e fui uno della 41° Brigata Carlo Carli”. Iniziò così per Pereno l’esperienza partigiana sui monti delle valli di Susa e Valsangone, quel periodo di “vita sospesa” che se oggi è bello rimembrare, allora fu dura da vivere. 

“Ci portarono da Eugenio Fassino – continuò Pereno – ed io subito conobbi in lui il Comandante. Fassino non solo era un comandante, un combattente, un patriota coraggioso: era un vero faro per i suoi uomini, un leader dal forte carisma, un simbolo per la Resistenza delle nostre valli. Un uomo dal grande valore che dimostrò ampiamente durante l’attacco al Dinamitificio Nobel del 26 giugno 1944: gli uomini della ‘Carlo Carli’ tennero sotto scacco l’intero presidio nazifascista per oltre sei ore e solo l’inaspettato arrivo di rinforzi provenienti da Torino permise a questi di non capitolare dinnanzi all’attacco partigiano.

Il Comandante Fassino fu ferito gravemente alle gambe e catturato dai tedeschi: “miracolosamente riuscì a sopravvivere ed a sfuggire ad un destino che pareva segnato…” La vita partigiana era un nuovo mondo che bisognava conoscere, fatto di marce tra boschi e forre, di amicizie schiette che nacquero e si cementificarono per tutta la vita, d’altre che improvvisamente s’interruppero spezzate dalle pallottole nemiche, di azioni militari e turni di sentinella.

Continuò Pereno: “Non posso dimenticare lo stazionamento su al lago blu (oggi nel Parco Orsiera Rocciavrè – Alpi Cozie) in quei rifugi che avevamo… Eravamo quasi costantemente immersi nella nebbia, che tutto permeava ed inumidiva, come una pioggerellina perenne e il tempo della vedetta era il tempo dell’ascolto: sentire non solo il sibilo del vento o il canto del falco o dell’aquila ma ascoltare il potenziale, felpato, passo del nemico che poteva sempre tentare di salire su dal fondovalle per darci battaglia. Sentire anche il tuo cuore, i suoi tumulti, le sue speranze, le paure… Perché anche la paura era compagna: non tanto e non solo quella per noi, quanto quella per i nostri cari, i nostri vecchi che erano rimasti a casa mentre tutto il mondo precipitava. Ma imparai ad ascoltare anche la voce della speranza perché il nostro presidio era l’Avamposto della futura libertà”.

All’improvviso poi potevano arrivare ordini di operazioni militari che bisognava compiere a danno del nemico come l’assalto alla Venchi – Unica di Torino organizzato da Dario Maranetto i 25 novembre del 1944. “Fu un’operazione fulminea, strategicamente ben preparata. Ci introducemmo nottetempo nello stabilimento – rammentava Pereno – e rese innocue le guardie entrammo nella fabbrica dove vi erano una decina di operai al lavoro dediti alla produzione di vettovagliamento alimentare per l’esercito nazifascista. Quando ci videro rimasero stupiti per come fossimo riusciti a giungere sin li con tutto il territorio presidiato dal nemico. Volevamo sequestrare della farina per le nostre necessità alimentari, ma quella che trovammo ci dissero che fosse inservibile per fare il pane, perchè già miscelata per fare delle gallette. Per non andare via a mani vuote caricammo i camion con 60 quintali di zucchero che pensavamo di poter distribuire in parte alla popolazione civile che tanto aiutava i partigiani. Destino volle che quella notte iniziasse un terribile rastrellamento coi classici atti terroristici che i tedeschi erano in uso commettere soprattutto ai danni dei civili. Noi alle cinque del 26 novembre eravamo a Trana con la nostra colonna di tre camion: all’improvviso un posto di blocco. Che fare? Carlo Suriani ed altri saltarono giù dal camion col parabellum in mano e con molta fortuna fecero credere ai tedeschi ch’erano di fronte ad un intero distaccamento partigiano. Questi, già demoralizzati e forse spaventati dall’idea di trovarsi davanti ad un interro battaglione partigiano lasciarono libera la strada…Noi allora capimmo, appena arrivati alle porte di Giaveno, che era iniziato l’ennesimo rastrellamento e che bisognava darsi alla macchia per evitare conseguenze ai civili. Nascosto, dopo vari giri e peripezie, il camion col suo prezioso carico, ci separammo, nascondendoci nei luoghi più svariati. Furono momenti drammatici: quando sei braccato, quando l’altro uomo diventa lupo e tu sei la preda solo il fato o la fortuna possono salvarti…Io ed un altro ci rifugiammo presso un cascinale: i proprietari ci rifocillarono con un po’ di latte e brodo di cipolle, ci nascosero in una specie di grotta al limitare della selva e ci dissero: “State nascosti fin quando tutto sarà finito perché se vi trovano qui ci fucilano tutti. Quando tutto sarà finito appenderemo un lenzuolo bianco al balcone e quando lo vedrete potrete uscire”.

Iniziarono allora per Pereno le lunghe ore dell’attesa che sembrarono eterne mentre fuori gli eventi precipitavano, come d’altronde stava precipitando verso l’abisso della storia il volo dell’aquila nazista. Il lenzuolo bianco visto appeso a quel balcone significò ancora una volta vita e voglia di libertà, forse un prodromo ad essa. Forse una metafora, un segnale… Un segnale come quando il tempo sta per cambiare, quando nel cielo oscuro madido di pioggia e nuvole oscure s’apre uno squarcio su al Moncenisio e s’annuncia l’imperioso arrivo del vento. I concitati avvenimenti della fine del 1944 accelerarono il corso degli eventi nel 1945. Il 14 aprile di quell’anno un gigantesco bombardamento alleato distrusse completamente l’intero Dinamitificio Allemandi sulla strada per Buttigliera Alta.

Continuò Pereno: “I B52 giunsero all’improvviso nel cielo sganciando tonnellate di bombe che sbriciolarono tutto. Oltre agli edifici si sbriciolò  anche l’ultima velleitaria forza nazifascista che doveva garantire l’ordine di Salò e che stava per giungere al capolinea della Storia. Noi sentivamo che era vicino il momento della libertà, “non stavamo più nella pelle” aspettando quel momento, perché la pace era “oltre la collina”. ù

“Soltanto chi ha visto l’orrore e la follia della guerra può capire cos’è il valore assoluto della pace.” Un capolinea che era ormai sempre più vicino, a portata di mano: questione di giorni, di ore e tutto sarebbe finalmente finito, si sarebbe potuto voltare pagina e trovare un foglio bianco sul quale scrivere l’idea di una nuova Italia. Concluse così Pereno: “Il pomeriggio del 24 aprile del 1945 quando era ormai imminente l’ordine di mobilitazione generale mi trovavo ad Avigliana, pronto a scendere a Torino. Ricordo che quel giorno pioveva a dirotto, ma poi smise. Nella notte s’alzò un vento impetuoso che spazzò via le nuvole e rese il cielo sereno. Quel vento del 25 aprile sembrava un grande respiro. Anzi lo era: era il respiro della libertà”. 

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