CHIOMONTE, IN RICORDO DI DON FRANSOUÀ…DIECI ANNI DOPO LA MORTE

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Don Fransuà Gros (foto dal sito del Comune di Chiomonte)

 

di CHIARA BERTOGLIO

CHIOMONTE – Ieri mattina, nel suo paese di montagna, abbiamo ricordato don Fransouà (Francesco Maria Gros) a dieci anni dalla morte. È una delle persone a cui devo il fatto di essere cristiana; una persona in cui risplendeva senza ombre la luce della bontà di Dio.
Voglio ricordarlo con un articolo che avevo scritto pochi giorni prima che tornasse alla casa del Padre, e che forse può aiutare a conoscerlo ed amarlo anche chi non ha avuto la fortuna di incontrarlo di persona.

Grazie, don Fransouà.

Non ho mai vissuto un giovedì santo così grande. Da un amico comune ho saputo che “il nemico”, come lo chiamava lui, una malattia in fase terminale, lasciava ormai pochi sprazzi di luce a don Fransoua, e ho voluto rendere omaggio ad un vero Giusto, un patriarca, un santo che non avrà mai immaginette né cappelline votive. E questo pellegrinaggio di saluto ad un vero amico si è intrecciato con i passi del giovedì santo, aiutandomi a viverli nella loro umana e divina concretezza.

Il sacerdozio

Don Fransouà: novantaquattro anni, quasi settanta di sacerdozio, più di sessanta da parroco dello stesso paesino di montagna, trentaquattromila messe celebrate. Trentaquattromila volte “Fate questo in memoria di me”. Trentaquattromila volte “Scambiatevi un segno di pace”.
Eppure si scopriva la novità e la verità della Messa andando anche solo ad una delle messe feriali, frequentate da due vecchiette che si radunavano nella chiesa romanica, col pavimento ricoperto di caldo parquet, piccola ed accogliente come un cenacolo.
Don Fransouà compariva dalla sacrestia, con paramenti antichi e dagli splendidi ricami. Entrava con il suo passo solido da montanaro; si guardava attorno per vedere se tutte le luci erano accese, baciava l’altare ed attraversava il presbiterio. Prendeva il microfono portatile, lo accendeva, lo provava, e ci regalava lo splendido sorriso dei suoi limpidissimi occhi celesti. “Buonasera a tutti, amici carissimi!”. Amici: ecco la parola d’ordine del suo ministero. Era lo stesso “Amici” di cui parla il Vangelo, quando Gesù si rivolge ai suoi non chiamandoli più servi. Con Don Fransouà, l’Amicizia era il ritornello che cadenzava ogni frammento di esistenza. E questo, in un paesino di montagna in cui l’amicizia non solo era tutt’altro che scontata, ma, direi, praticamente inesistente.
Don Fransoua proseguiva camminando nella chiesa, e chiedeva a ciascuno dei pochi fedeli come stavano, come andava la zia in ospedale e così via. Poi tornava sul presbiterio, e si iniziava la celebrazione.
Qua e là, don Fransouà aveva un po’ cambiato le parole della liturgia. Sì, lo so, i liturgisti inorridiscono: eppure vi garantisco che, proprio grazie alle interpolazioni di don Fransouà, io bambina ed adolescente ho percepito per la prima volta la Verità delle parole della liturgia stessa. Le frasi che don Fransouà cambiava facevano sì che tutte le altre, quelle che stanno sui libri sacri, acquisissero una spontaneità nuova, fresca e giovane. Si percepiva che era giusto, bello e spontaneo rivolgersi a Dio con le parole della liturgia, proprio perché don Fransouà, con il suo atteggiamento non totalmente ortodosso, sentiva il bisogno di modificarne solo un paio.
La modifica più notevole era dopo il Padre Nostro. Don Fransouà si chinava profondamente sul Pane e Vino consacrati, entrava in un tu per tu concentratissimo, ad occhi chiusi ed a voce sussurrata, dicendo: “Liberaci, o Signore, da tutti i mali; concedi la pace ai nostri giorni. E col tuo aiuto, con il tuo aiuto noi tenteremo… tenteremo ogni giorno di vivere liberi dal male, dal peccato, dalle cattiverie, dagli egoismi… nell’attesa fiduciosa, operosa… (e qui c’era un crescendo rossiniano fino al forte), gioiosa! Che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”.

Anche la menzione dei santi era tutta speciale. Dopo aver citato la “Beata Maria, Vergine e Madre di Dio, i tuoi santi apostoli, e gloriosi martiri”, don Fransouà si interrompeva, e spettava ai bambini della parrocchia continuare. E qui c’era una specie di coretto parlato, in cui tutti i bimbi elencavano a squarciagola “San Sebastiano, San Bartolomeo, il Beato Pier Giorgio”…, provocando il compiaciuto e paterno sorriso del vecchio prete.

Andando a ritroso nella celebrazione, un momento capitale era quello delle intenzioni di preghiera. Bisogna ora citare una persona molto importante della parrocchia, Endriu (scritto proprio così). Endriu è quello che ho conosciuto ragazzo ed ora è un uomo affetto da grave sindrome di Down. Ed ha sempre ricoperto il ruolo di capo-chierichetto: ruolo di cui va molto fiero e che svolge con grande impegno e responsabilità. Don Fransouà prendeva il fedele microfono portatile (che peraltro, con il suo gran vocione possente, era perfettamente inutile), e dava il buon esempio, inventando una preghiera sui due piedi, a cui l’assemblea rispondeva “Ascoltaci, o Signore”. Dopodiché, Endriu prendeva il microfono, ed attraversava la chiesa, porgendo il microfono a tutti i presenti. Pochi, in realtà, accoglievano l’invito, con grande tristezza di don Fransouà: per lui la Condivisione era un’altra delle grandi parole della vita. Così, quando eravamo in villeggiatura nel paesino di montagna, io ed i miei familiari cercavamo sempre di inventarci qualcosa, a costo di apparire esibizionisti. Concluso il giro della chiesa, Endriu tornava al presbiterio; si voltava verso di noi, e balbettava nel microfono: “Tu-tu-tutti i ma-ma-lati”. Ed io non potevo far a meno di pensare che, se un giorno fossi stata malata, la consolazione più grande sarebbe stata pensare che Endriu pregava per me.

Il Pane

Il Pane di Don Fransouà era il pane genuino, robusto, profumato ed amato dei tempi antichi. Il pane che mi viene in mente, pensando a lui, è il pane di San Rocco, uno dei patroni del paesino in cui “il Fransouà” ha svolto il suo ministero. Il 16 agosto ci si trovava nei giardini davanti alla stazione, per la messa in onore del patrono, la cui statua con il fedele cagnolino sembrava adattissima alla semplicità contadina e domestica della celebrazione. Davanti all’altare da campo, facevano bella mostra di sé enormi micconi di pane fragrante, su cui improbabili lettere di pane scrivevano “San Rocco” e l’anno in corso. Il pane veniva benedetto durante la messa, e poi, alla fine, se ne tagliavano dei pezzi che venivano distribuiti a tutti. Era semplice pane benedetto, non l’Eucaristia: ma condividerlo così, tutti quanti, devoti e mangiapreti, simpatici e antipatici, giovani e vecchi (noi bambini lo assaporavamo come se non avessimo mai mangiato pane in vita nostra) lo rendeva davvero speciale. Sapeva un po’ del clima che doveva esserci su un certo prato, lontano dai villaggi, in cui cinque pani sfamarono migliaia di persone; e sapeva anche del cordiale condividere l’Eucaristia che avrà reso calda e serena l’Ultima Cena di Gesù.

Il Vino

Rigogliosi grappoli d’uva compaiono sullo stemma del paesino in cui Fransouà ha svolto il suo ministero. Ricordo questo omone tarchiato percorrere con passo deciso le strade ripide del paese, con un berrettino da pescatore in testa ed una sgargiante felpa gialla con lo stemma del villaggio, ornato dalle parole “Jamais sans toi”, “Mai senza di te”. Per lui, era un vero e proprio motto: mai senza gli Amici, mai senza te, proprio te, anche se eri un semplice villeggiante che vedeva una volta all’anno.
Il vino di Fransouà era anche quello che a volte si tirava fuori la domenica pomeriggio, quando si passava a salutarlo. Ci si sedeva in canonica, e lui si informava sui nostri studi, i nostri progetti, e trovava sempre qualcosa da festeggiare con il vino leggero e profumato delle valli di montagna. Anche in questo, Fransouà era un’icona di Cristo: sapeva far festa, pur essendo tutto tranne che “un mangione ed un beone”. Sapeva che gli Amici si trovano meglio se c’è qualcosa da Condividere: e per questo, uno dei suoi canti preferiti, che intonava con la sua grande voce, era “Ecco il tuo posto”. Quando si arrivava alle parole: “Tutti divideremo pane e vino”, Fransouà spalancava le sue grandi braccia e “dirigeva” il coro, perché tutti cantassimo a gran voce; e lo stesso accadeva al ritornello, “Quanto amore nel seminare…”. E l’altro vino di don Fransouà era il vin brulé, un segno di amicizia, cordialità e condivisione che ci aspettava alla fine della messa di mezzanotte e della veglia pasquale. Si usciva di chiesa, dopo queste celebrazioni calde e sentite, e ci si ritrovava intirizziti sul sagrato, sotto le stelle luminosissime della montagna. E lì, le signore della parrocchia avevano preparato un bollente vin brulé per tutti, con i torcetti o il panettone, che incoraggiavano a rimanere ancora un po’ a condividere l’amicizia e la festa.

L’Eucaristia

Nella chiesa di C., l’Eucaristia si riceveva sempre sotto le due specie. Qualche ministro della Comunione distribuiva le ostie, mentre don Fransoua passava a porgere il calice a coloro che lo desideravano. A me faceva tanto piacere: era una condivisione genuina, profonda, sincera; ci si sentiva davvero famiglia, ed era così facile rivolgersi confidenzialmente a Gesù dopo che il suo Sangue aveva aggiunto letizia al mistero del suo Corpo condiviso.
L’altro “miracolo” di don Fransouà erano i suoi colloqui con Gesù Eucaristia. Dopo la consacrazione, ad ognuna delle sue trentaquattromila messe, Don Fransouà subiva una metamorfosi. Questo montanaro un po’ rumoroso e tanto aperto sembrava diventare un bambino, o sembrava parlare con un bambino piccolo, quasi nel timore di svegliarlo. Nel proseguire la liturgia, don Fransouà si rivolgeva a Cristo presente nel Pane e nel Vino come se nient’altro esistesse al mondo; era un colloquio densissimo, vero, forte, in cui il raccoglimento trapelava da ogni intonazione e ogni gesto. Non ci si poteva distrarre: anche noi bambini eravamo calamitati dal vedere don Fransouà così assorto, e capivamo la grandezza del mistero che si celebrava.

Lavanda dei piedi. Il servizio

Una terza parola d’ordine di Don Fransouà erano “Gli Ultimi”. Gli Ultimi erano sempre presenti nelle sue preghiere, nelle sue omelie, nelle sue azioni, così come la parola “Servizio”. Dal pulpito invitava qualcuno “per il servizio di lettura”; non mancava mai di ringraziarmi quando potevo suonare alla Messa; ed invitava i bambini e qualche adulto ad aiutarlo nel Servizio all’altare.
Ma, soprattutto, il Servizio era Servire gli Ultimi. Don Fransouà lo faceva nel silenzio, senza rumore, con una fedeltà di decenni di nascondimento. Poi, a ottant’anni suonati, diede vita ad un progetto incredibile, da “santo folle”: una casa di riposo per anziani nel suo paese. Di case di riposo ce ne sono tante; questa si chiamava – ovviamente – “Casa Amica”. Ed era proprio una casa amica. Per costruirla, Don Fransouà diede fondo ai suoi risparmi di una vita, alle proprietà dei suoi genitori, a tutte le energie che si potevano mobilitare: e in capo a due anni era una splendida realtà funzionante.
Tutto era curatissimo, solare, cordiale: camere bellissime e luminose, con colori caldi e solari; iniziative a non finire per gli ospiti; un clima di vera casa e di vera amicizia che rendeva sereni gli anni spenti dei malati di Alzheimer e luminosi i loro occhi appannati.
Don Fransoua era sempre lì, “al servizio”: e sono stata felice di vederlo lì ieri, in mezzo ai suoi anziani, in una delle belle camerette che aveva sognato per i suoi Ultimi.

Il “sepolcro”

A Casa Amica c’è una cappella, dedicata a Pier Giorgio Frassati. Don Fransouà l’aveva conosciuto: lui era un bambino, Pier Giorgio, il ragazzone di cui ci hanno tramandato le sue fotografie. La scelta della dedizione era più che motivata: un beato giovane, per dare luce ad una casa di riposo; un beato amico, per uno che metteva sopra a tutto l’amicizia; un beato della carità e del servizio, per uno che del servizio agli Ultimi aveva fatto la cifra della sua vita; un beato della montagna, per uno che amava le vette aguzze che circondano la valle, la neve, e l’aria pura delle cime.

E come è consuetudine, il giovedì santo, allestire un “sepolcro” in cui deporre Gesù Eucaristia, così anche nella cappella di Casa Amica la casa di Gesù era speciale. L’altare su cui Don Fransouà celebrava la Messa, e dove ha celebrato l’ultima delle sue trentaquattromila messe, era la “madia”, la credenza della sua mamma, il posto in cui si riponeva il pane. L’amore con cui la mamma di Don Fransouà custodiva il pane per il suo bambino diventava la base su cui si celebrava l’amore di un Dio fatto pane; e lì accanto, ora, mentre scrivo, don Fransouà sta aspettando che il suo Amico venga a dirgli: “Vieni, servo buono e fedele”.

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